In un settore declinato al femminile, cosa vuol dire essere un ostetrico in Italia?

Ne abbiamo parlato con il Prof. Francesco Rasi, ostetrico e docente UniCamillus, per scoprire che essere un uomo che aiuta le donne per il parto non solo è possibile, ma è anche una splendida esperienza

È un lavoro da donne? Assolutamente no. O meglio non solo. Sebbene nella lingua italiana si parli prevalentemente di “ostetrica” per riferirsi a chi è esperto nel monitoraggio di mamma e feto durante gravidanza, travaglio e parto, non è assolutamente un mestiere di solo appannaggio femminile. Dall’entrata in vigore della legge sulla Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro (903/1977), la professione dell’ostetrica è possibile per entrambi i generi.

Eppure i dati sono molto sbilanciati a favore delle donne: in Italia, si parla di 22 mila ostetriche a fronte di 300 ostetrici. E non è un divario solo italiano: basti pensare che in inglese il termine più utilizzato è “midwife”, declinato al femminile, e gli ostetrici tendono a specificare il proprio genere con l’espressione “male midwife”.

I motivi possono essere più di uno: innanzitutto la scelta di occuparsi della gravidanza e del parto può essere fatta da un individuo che si sente coinvolto in prima persona con questa esperienza; inoltre, essendo un settore popolato principalmente da donne, è più facile che un uomo possa temere giudizi e discriminazioni o, peggio ancora, possa aver paura di non essere scelto dalle pazienti.

E invece si tratta di miti da sfatare: il perché ce lo racconta il Prof. Francesco Rasi, docente di Scienze Infermieristiche Ostetrico-Ginecologiche presso l’Università UniCamillus, nonché ostetrico presso il San Camillo Forlanini di Roma. 

Qual è stata la sua motivazione principale nell’intraprendere la carriera di ostetrico?

«In realtà la scelta di diventare un ostetrico è arrivata un po’ per caso: uscito dalla maturità classica, volevo entrare a Medicina. Purtroppo quell’estate non ho avuto né il modo né il tempo per prepararmi in maniera adeguata ai tanto temuti test d’ingresso e quindi, per non perdere un anno, decisi di iscrivermi anche ai test d’ingresso per i corsi di laurea triennale in area sanitaria, tra i quali scelsi Ostetricia. Mi spinse la consapevolezza che l’anno successivo avrei potuto comunque ritentare per Medicina, qualora non fossi entrato subito. Non entrai a Medicina, bensì ad Ostetricia. Il primo anno passò velocemente, e capii che mi piaceva, che poteva essere il lavoro della mia vita, a tal punto che dimenticai completamente la data di scadenza per fare domanda al test d’ingresso per Medicina dell’anno successivo e questo lo interpretai come un chiaro segno del destino: la mia scelta era presa.»

Quali sfide ha affrontato nel campo dell’ostetricia come uomo in una professione tradizionalmente dominata dalle donne?

«Non posso parlare propriamente di “sfide” specifiche date dall’essere un uomo in un “mondo di donne”. Le sfide affrontate sono le stesse che credo ogni professionista deve affrontare quando si approccia agli inizi di un nuovo lavoro: presentarsi per le qualità e le competenze che si posseggono, dimostrare di saper fare il proprio lavoro, farsi conoscere per una persona affidabile e preparata e allo stesso dimostrarsi sempre umile, pronto costantemente ad imparare e ad ammettere le proprie carenze per colmarle. Piuttosto posso dire di essere sempre stato accolto con molta “curiosità”, forse in quanto uno dei pochi uomini a fare questo lavoro, e questo ha catalizzato su di me attenzioni e aspettative, che credo mi abbiano dato una spinta in più per spronarmi a crescere e a fare sempre del mio meglio.»

Come descriverebbe l’accoglienza ricevuta da colleghi/e e dalle pazienti nel suo percorso professionale?

«Ho un carattere abbastanza aperto, estroverso, solare, tale che difficilmente stento a fare amicizia e/o a stringere comunque rapporti lavorativi proficui e incentivanti. Quindi, complice probabilmente anche il mio modo di essere, l’accoglienza dei/delle colleghi/colleghe è sempre stata cordiale, amicale, di reciproco rispetto. Poi va da sé che, naturalmente, ci possono essere persone con le quali si riscontrano maggiori difficoltà nell’interazione, senza un apparente motivo: in quei casi posso sostenere con certezza che, col tempo, il lato professionale del rapporto lavorativo abbia permesso di superare la diffidenza iniziale.

Le pazienti, invece, mi hanno sempre accolto con curiosità, simpatia, garbo e fiducia, consapevoli di affidarsi nelle mani di un professionista sanitario, a prescindere dal genere di appartenenza.»

Ha notato differenze nel modo in cui le pazienti reagiscono alla sua presenza rispetto alle ostetriche donne? Se sì, in che modo?

«Non parlerei propriamente di “differenze”. Nella realtà lavorativa ospedaliera, quella che più mi appartiene, le donne ci conoscono in situazioni della loro vita uniche e particolari ed il ruolo dell’ostetrica/o è riconosciuto, almeno dalle pazienti, come fondamentale per accompagnarle in questi momenti con professionalità ed empatia. Le donne non hanno reazioni particolarmente differenti a seconda che la figura ostetrica presente sia un uomo o una donna. Forse l’unica vera grande limitazione è data talvolta dalle barriere di carattere culturale: quando mi trovo di fronte a donne di culture differenti, che magari non contemplano che un uomo possa vederle senza veli, sul viso e sul corpo, allora cerco di farle assistere da colleghe di sesso femminile, per rispetto. 

Per carità, è anche successo che alle volte qualche paziente si mostrasse inizialmente in difficoltà al pensiero di farsi vedere in una determinata situazione –  quale può essere il travaglio ed il parto – da un ostetrico uomo ma, superato l’impasse iniziale, con un certo grado di simpatia e mostrando soprattutto la professionalità con la quale svolgo il mio lavoro, è sempre andato tutto nel migliore dei modi.»

Quali sono i principali miti o stereotipi che incontra riguardo agli ostetrici uomini e come li affronta?

«Non mi sono mai sentito “ghettizzato”, né ho mai percepito nei miei confronti, o nei confronti dei miei colleghi uomini, miti o false credenze volte a screditarci. Sarò stato fortunato io? Spero di no. Spero che sia così in ogni posto di lavoro dove ostetriche donne e ostetrici uomini lavorano insieme per il bene delle donne e dei loro bambini. 

Spesso mi sono sentito chiedere il perché avessi scelto questa professione e a tutte ho sempre risposto con onestà e sincerità: ho intrapreso questo percorso per puro caso, non per un desiderio che ho sempre maturato in me, ma la passione è cresciuta ogni giorno di più e oggi posso dire con certezza di avere l’onore di svolgere uno dei lavori più belli del mondo, con tutta la soddisfazione che da questo scaturisce.»

Quali ritiene siano le qualità fondamentali per essere un buon ostetrico, indipendentemente dal genere?

«Preparazione, ricerca, aggiornamento continuo, empatia, dinamismo e la capacità di assistere ogni parto come fosse il primo.»

Quali opportunità di crescita professionale vede nel campo dell’ostetricia per gli uomini? Nel tempo si è “smosso” qualcosa?

«Vedo opportunità di crescita professionale per la categoria ostetrica tutta, a prescindere dal sesso. Uno dei miei ruoli, in quanto Consigliere dell’Ordine della Professione Ostetrica di Roma e Provincia, è proprio quello di tutelare e allo stesso tempo rappresentare la categoria ostetrica, nel mio piccolo. Vedo grandi margini di crescita professionale, a partire dalla qualità della didattica sempre crescente che i nostri futuri colleghi e colleghe ricevono durante il loro percorso di studi. 

Purtroppo ancora dobbiamo lottare tanto per farci conoscere e riconoscere, quindi, come si suol dire, “le acque devono ancora smuoversi”: portiamo avanti battaglie per il raggiungimento di una contrattazione collettiva nazionale che riconosca non solo le nostre responsabilità, ma anche le nostre peculiarità e competenze, al fine di tradurle in maniera ponderata e giusta in posizioni professionali apicali di ruolo sempre crescente e remunerazioni consone per un professionista sanitario che ha in mano la responsabilità degli interi percorsi e processi fisiologici della vita della donna, del suo bambino/a, finanche dell’intera collettività. Sogno di vederci nei ruoli e nei contesti che meritiamo di poter ricoprire per specifiche competenze di legge: clinica, formazione e dirigenza. Auspico corsi di laurea sempre più “completi” e al passo col mutare delle esigenze di una società che cambia giornalmente e di un’assistenza che richiede continui aggiornamenti, soprattutto nell’ottica dell’Evidence Based Medicine e percorsi di studi di I e II livello crescenti in numero e qualità, ogni giorno più specifici, professionalizzanti e riconosciuti come tali. Insomma, credo che un po’ si sia capito: non sono un sognatore… tutt’altro! E proprio per questo vorrei vedere il riconoscimento concreto delle competenze specifiche della nostra professione, e tutto questo prescinde dal genere.»

Ha qualche consiglio per gli uomini che desiderano intraprendere la carriera di ostetrico in Italia, considerando il rapporto numerico sfavorevole?

«Nessun consiglio specifico. Consiglierei loro lo stesso che consiglierei anche alle studentesse che si approcciano a questo mondo una volta laureate: “la laurea non è la fine, è solo l’inizio!”. Declinando quindi il tutto al maschile, per mera facilità espositiva, direi: siate sempre curiosi, continuate a studiare, fate ricerca, mettete il cuore in quello che state per andare a fare, riconoscendone voi per primi la sacralità e l’importanza e soprattutto, vi auguro di avere sempre la capacità di commuovervi in questo lavoro, proprio come credo sia successo a tutti davanti al primo parto. 

In un mondo di quote rosa, come può essere quello dell’ostetricia, non è sempre un male rappresentare la minoranza delle quote azzurre, basta farsi valere per quello che si è, un bravo professionista.»